Il personaggio del mese: Lucio Battisti – Intervista a Donato Zoppo

SETTEMBRE (a cura di A. Vailati e A. Rezzi)

Settembre è il mese in cui se ne è andato Lucio Battisti, venticinque anni fa, lasciando un silenzio assordante e un vuoto incolmabile. È anche il mese in cui è uscito, nell’ormai lontanissimo 1982, il suo disco più emblematico e sfuggente, E già, il primo scritto senza la collaborazione di Mogol. Ora, nel 2023, Settembre è il momento giusto per parlare con il giornalista e scrittore Donato Zoppo del libro Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale, appena pubblicato e dedicato a quest’opera per certi versi ancora sconosciuta, che più di una vera e propria riabilitazione necessita di un approfondimento, per scoprire una fase importante del percorso di uno degli artisti più amati dagli italiani.

Benvenuto nuovamente tra noi, Donato. Allora, cominciamo con il dire che sei stato di parola. Nell’intervista qui a MusicPhilò di un anno e mezzo fa ci raccontasti: «Ho voglia di cimentarmi nuovamente in uno studio battistiano, anche perché c’è tanto da studiare…» Ci aspettavamo un volume sulla fase panelliana, invece ci hai sorpreso con questa bellissima analisi di E già.

La cosa ha sorpreso anche me, perché ai tempi della nostra ultima intervista non avevo ancora messo a fuoco l’idea di uno studio su E già, sapevo solo che in futuro avrei potuto dare un seguito all’ultimo libro, che si era fermato proprio alla separazione tra Mogol e Battisti, all’ultimo Lp e all’ultima canzone insieme; sentivo che mancava un tassello battistiano ma non sapevo bene cosa affrontare, pensavo ad esempio alle copertine di Battisti, oppure alla storia della Numero Uno, oppure all’ipotesi della fase “bianca”, che era particolarmente allettante. Il seguito però non poteva che essere l’album del 1982, questo disco-cerniera, un atto unico di transizione, sperimentazione, riposizionamento, ma anche un documento storico. Un disco strano, dimenticato, forse persino brutto, che però ha tanta vita e tanta ricerca nelle motivazioni.

E già è il primo disco pop italiano a essere registrato esclusivamente con strumenti elettronici, mentre Amore e non amore di undici anni prima si potrebbe definire il primo album concepito in quanto tale, un unicum senza particolare riguardo per il formato canzone. Forse questi sono alcuni dei motivi che ti hanno spinto a immortalare le tue conoscenze prima in Amore, libertà e censura e ora in Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale?

Questi due album, così diversi eppure così vicini, condividono effettivamente dei primati, o meglio contengono entrambi delle prime volte, questo li accomuna. Amore e non amore fu il primo Lp di inediti di Lucio, ma fu anche il disco improvvisato in studio nella parte rock-blues, suonato con l’orchestra nella parte strumentale in odore di progressive, il primo disco di Lucio censurato, con la copertina legata al clima hippie anni ‘70. Insomma un album pieno di storie da raccontare. E già invece non è l’album degli sfizi, non è il disco della rock band live in studio ma un’operazione diversa, meditata, solitaria, con cui Lucio riparte da zero. È proprio il caso di dirlo visto che tutto il patrimonio musicale che aveva alle spalle non gli interessava più, aveva prevalentemente l’esigenza di rimettersi in cammino dopo l’azzeramento con Mogol. Dunque è un nuovo esordio, un rinnovato primo passo. In entrambi gli album sono più forti le motivazioni che il risultato finale, con la peculiarità del dato autobiografico in E già: per la prima e ultima volta, Lucio si mette a nudo – in una chiave per certi versi simbolistica ma comunque parlando di sé in modo piuttosto diretto, quasi elementare – e racconta un suo pezzo di vita tra 1981 e 1982.

Il 1982 è un anno pieno di avvenimenti a livello nazionale. Come si pone l’opera di Battisti nel contesto musicale e non di quel periodo?

Gli anni ’80 sono molto diversi dal decennio precedente, come ci racconta Luca Pollini in Gli Ottanta, appena uscito. Con il caso Moro, la morte di Demetrio Stratos, il riflusso, la disco music etc si è chiusa un’epoca e comincia un percorso culturale nel quale l’individualismo come sinonimo di ripiegamento interiore si alterna a una forma più dannosa – culturalmente parlando – di individualismo esteriore, veicolo di disimpegno, culto dell’immagine, dell’apparire. Arriveranno gli anni del weekend postmoderno, o della Milano da bere, ma anche della Firenze esaltante, di altri gruppi che cambieranno la nostra cultura popolare. La grande musica rock del passato è terminata, i vecchi campioni si orientano a un pop-rock meno utopistico e più fruibile, i nuovi sono figli della lunga e variopinta ondata post-punk, in particolare le sonorità più intriganti per le orecchie di Lucio sono quelle del synth-pop alla Depeche Mode, Human League, Heaven 17, Eurythmics, gruppi influenzati da Kraftwerk e Brian Eno. Ebbene, questi nomi erano assai presenti nei pensieri del Battisti dei primissimi anni ’80, che si interessa sempre più di elettronica tanto da applicarla al formato della canzone pop. Una canzone che lui interpreta come occasione di approfondimento, sganciato dalla ricerca del consenso: se negli anni ’60 e ’70 la sua ricerca era legata a un formato appetibile e cantabile, destinato al successo di massa, in seguito ha abdicato a quell’obiettivo concentrandosi su una svolta radicale. E già è proprio la partenza.

Una delle sfaccettature che più mi ha colpito del tuo libro è l’emergere di un lato rimasto opaco, “oscuro” forse, nel Battisti del periodo che racconti. Mi hanno sempre affascinato le fasi di “ripensamento” dei grandi artisti e l’approdo di queste evoluzioni. Cosa hai scoperto di peculiare in questa fase battistiana?

E già è un disco luminoso, cristallino anche nei difetti, bianco a partire dalla copertina. È un album in cui prevale l’evidenza, più che il tratto esoterico. Eppure se si scava per bene si scopre un elemento esoterico, simbolistico, è presente, a partire dal concetto di rinascita attraverso l’acqua. Mi è piaciuto molto entrare in questo Battisti mistico, ma diverso da Battiato. Se quella di Franco è stata una mistica ascetica e ascensionale, legata a certi sapere e a certe pratiche, quella di Lucio è orizzontale, legata al pragmatismo del quotidiano, alla consapevolezza di sé, alla necessità di un elemento battesimale forte – l’acqua, il bianco – per poter ripartire.

Qual è l’elemento, se ce c’è uno in particolare, nella genesi di questo disco così autobiografico e sfuggente che ti ha convinto valesse la pena studiarlo a fondo e scriverne?

Come intuibile, mi riferisco principalmente alle motivazioni. La cosa che mi ha solleticato di più era il motivo per il quale Battisti realizza questo album radicalmente opposto ai precedenti. Eppure il legame con qualcosa del passato c’è, penso al Battisti autarchico di Supermarket e di Respirando, quando faceva da solo perché andava bene così, diceva con la sua logica stringente, per citare Mara Maionchi. Oppure penso alla grande visione cosmica di Anima latina. Tutti passaggi precedenti che ci mostrano un Lucio volitivo, forte, che fa da sé o asseconda la propria pulsione interiore dando forma a musiche tanto diverse tra loro – il blues pestone e tutto storto di Supermarket è diametralmente opposto al potente manifesto psichedelico di Abbracciala abbracciali abbracciati – ma figlie di un unico artista. Un elemento importante per capire questo Battisti è il cambio di rotta strumentale: da figlio della generazione rock, Lucio pensava i suoi pezzi alla chitarra o al piano, con Bob Dylan, Ray Charles o gli Stones in mente; nell’82 è incuriosito dalle possibilità elettroniche e partorisce la sua musica con synth e drum machine, tutto solo tra tasti e bottoni. Anche soltanto a immaginarlo viene voglia di scriverci un libro…

Questo Battisti autarchico e prossimo al nascondimento dal pubblico affascina per la sua passione per alcune pratiche sportive e insieme per i suoi nuovi interessi, tra cui diverse letture in ambito scientifico e filosofico. Esiste un legame diretto tra questa sua “verticalità” ancora più marcata, che sottolinei in maniera molto efficace nel libro, e alcuni brani o passaggi di E già?

E già è sostanzialmente il racconto, a volte anche in presa diretta, di questa nuova vita. La verticalità battistiana, questa sua propensione all’analisi di ciò che gli interessava, è un dato caratteriale che tutti ricordano: se da una parte ciò lo conduceva a istruirsi su qualsiasi argomento in maniera persino ossessiva (dalla psicanalisi all’idraulica, dalla filosofia all’amministrazione di condominio…), dall’altra parte riusciva a concentrarsi con il massimo della dedizione alla musica. E già lo dimostra: questo synth-pop tanto aereo quanto canalizzato in pochi accordi e monolitici percorsi di tastiere ci rivela un Lucio lineare, che canalizza tutto il suo mondo in musica. D’altronde per lui la musica è sempre stata un’esperienza totalizzante, l’album del 1982 è l’ennesima dimostrazione.

Perché in Italia non si riesce ad affrontare il secondo Battisti come meriterebbe e si rimane legati solo al Battisti nazionalpopolare, come se uno potesse esistere senza l’altro?

Bella, complessa e intrigante domanda. Intanto penso che i due periodi non siano in dissidio ma uno alimenti l’altro. In soldoni, se è arrivato Panella è stato perché non aveva più senso Mogol; se Lucio ha azzerato i suoi anni ’70 il motivo era nella visione del periodo successivo. È ripartito da ciò che ha annullato, ma il prima e il dopo sono due facce della stessa medaglia perché in comune hanno lo stesso artista. Dunque da un punto di vista narrativo, raccontare solo una parte è non rispettare la storia dell’artista. Vero è che l’epoca Mogol, se lo strumento usato è un documentario, è narrativamente e televisivamente più agevole: più popolare, più trasmissibile, più funzionale ai gusti del pubblico, più gestibile vista la presenza di immagini, video e condizioni giuridiche. L’epoca Panella da questo punto di vista è problematica: se da una parte è doveroso rispettare la scelta del silenzio di Lucio, dall’altra è altrettanto doveroso ricostruire quella vicenda, pena l’oblio. Dal punto di vista editoriale esistono un po’ di libri, quello di Andrea Podestà (Battisti, l’altro, di Squilibri) è un validissimo punto di partenza, ma è solo l’ultimo tra quelli usciti. Probabilmente è nello strumento libro che noi possiamo trovare la migliore ricostruzione del fenomeno Battisti.