Schopenhauer e Dello scrivere
In queste settimane mi sto interrogando molto sul senso dello scrivere oggi. E dunque anche sul senso del continuare a farlo, nella forma libro o per questo blog.
Come spesso mi accade, quando attraverso queste fasi di profonda confusione tutto diventa al tempo stesso allettante e fatuo. Sgomito alla ricerca di un’intuizione, di una strada nuova da seguire, oppure di una solida conferma dei passi compiuti.
Posso passare così da Saramago e le sue Intermittenze della morte alle Lezioni americane di Calvino. Leggere il Ramana Maharshi di Chi sono io? e contemporaneamente le “lezioni di perplessità” di Cioran ne La tentazione di esistere.
Oppure consultare l’I Ching e provare a fare tesoro dei suoi miti consigli. Certo, la propizia perseveranza, ma senza spendere troppo rapidamente le proprie energie. Perché come il fuoco l’intelletto può illuminare la vita, ma anche consumarla.
Da qualche giorno ho ripreso in mano un libretto acquistato un paio di decenni fa: Arthur Schopenhauer, Sul mestiere dello scrittore e sullo stile. E come sempre vi ho trovato indicazioni pregnanti, potenti, decisive, attualissime. Perché?
Perché il filosofo di Danzica non solo ricorda che scriverà cose degne di essere scritte soltanto colui che sia spinto esclusivamente dalla cosa che gli sta a cuore. Ma soprattutto che rari sono gli scrittori che hanno pensato prima di accingersi a scrivere, e che dunque scrivono soltanto perché hanno pensato.
Il merito di uno scrittore è tanto più grande quanto meno egli lo deve alla materia, anzi, perfino quanto più la materia è nota e logora. Non conta cioè tanto la materia del libro (ciò su cui l’autore ha pensato), ma la forma, cioè in che cosa l’autore ne ha pensato.
Insomma: quando ciò che importa è la forma, dato che la materia è accessibile oppure è perfino già nota a ognuno, quando, dunque, soltanto il “che cosa” del pensiero intorno alla materia può conferire valore a un’opera, allora soltanto, secondo Schopenhauer, chi scrive riesce a produrre qualcosa che sia degno di essere letto.
Queste riflessioni mi hanno portato a deviare da un nuovo progetto che avevo in mente e fermarmi.
Fermarmi a studiare, ritornare sulla “materia”, benché nota, e sondarne i confini, le angolazioni, le crepe aperte e le strade di pensiero ancora non battute. Senza preoccuparmi dell’esito di questa ricerca, confidando che se darà frutto sarà nascosto in una delle innumerevoli variabili nascoste che le nostre azioni necessariamente implicano.
La sacre sinfonie del tempo
Così, in modo naturale, sono tornato in qualche modo dove ero rimasto. La notizia della morte di Franco Battiato è arrivata mentre stavo ultimando la stesura e revisione dell’ultimo libro, La via mistica di George Harrison, uscito in questi giorni di ottobre per Mimesis edizioni.
A colpirmi immediatamente fu l’intreccio e la sovrapposizione di temi su cui due personalità così diverse erano arrivati a confrontarsi. Ma in particolare un’idea: quella che Battiato ha messo in maniera sublime in musica ne Le sacre sinfonie del tempo.
«Siamo esseri immortali
caduti nelle tenebre,
destinati a errare
nei secoli dei secoli,
fino a completa guarigione…».
Basterebbe questa manciata di versi per avere materia su cui riflettere, ognuno allo specchio della propria esistenza, per un tempo incalcolabile. Ogni singola parola, ogni breve verso, condensa in sé millenni di intuizioni spirituali e filosofiche, da Occidente a Oriente, e insieme tutti i tentativi di confutarne la verità.
L’interesse per il misticismo indiano aveva portato anche il giovane Francesco a leggere Yogananda, che sostanzialmente nello stesso periodo (metà/fine anni Sessanta) sarebbe diventato uno dei principali punti di riferimento del chitarrista dei Beatles. Come riporto nel libro, «i viaggi in India avevano regalato a Harrison esperienze indimenticabili e tra queste una del tutto particolare; a contatto con quei luoghi che sentiva particolarmente affini era giunto a un’intuizione fondamentale, quasi fulminea, suffragata poi dalle sue letture: l’anima non muore».
In Autobiografia di uno yogi Yogananda scrive: «Se l’uomo fosse soltanto una forma fisica, la perdita del corpo metterebbe davvero fine alla sua identità; ma, se per millenni i profeti hanno detto il vero, l’uomo è essenzialmente l’anima incorporea e onnipresente». E ancora: «L’anima è eternamente libera; è immortale, perché non ha nascita. Quando riconosce in che cosa consiste la sua vera identità, l’uomo si lascia alle spalle ogni forma di coercizione».
Seguire Harrison nella scoperta di questi insegnamenti e nel suo tentativo di applicarli alla propria esistenza, fino all’ultimo dei suoi giorni, mi ha permesso di approcciarli con lo spirito più ingenuo possibile. Senza infiltrazioni di preconcetti culturali. Unicamente mosso dal desiderio di scoprire.
Questo mi ha consentito di avvicinarmi alla loro potenza e scoprire l’immenso tesoro millenario del pensiero indiano e upanishadico, quello che lo stesso Schopenhauer considerava l’unica autentica consolazione della sua vita.
Da questo frammezzo di suggestioni, da Harrison a Battiato, dalla filosofia al misticismo, da Saramago a Cioran, continuerò la ricerca, alimenterò la confusione, sonderò perplessità e nuove scoperte. Misterioso e incalcolabile è il cammino, fino a completa guarigione…