Un anno fa l’uscita del tuo libro Being Janis. Il diritto di essere se stessi per Arcana edizioni. Il tuo “Essere Janis” ha il pregio di non voler essere una biografia ma di proporre una serie di riflessioni attorno alla storia di questa artista straordinaria, che tu dici non godere più oggi dell’autorevolezza di un tempo. Perché?
Beh, i tempi sono diversi, innanzitutto. È cambiato il contesto culturale, la mentalità… con il passare degli anni il suo mito si è andato a perdere perché è il simbolo di una generazione che ormai non c’è più, e che non è nemmeno più stata approfondita dalle nuove. È rimasta la sua figura, astratta ed illibata, come quella di un personaggio estemporaneo, ma è scomparso tutto ciò che le stava intorno, tutto quello che l’ha resa veramente apprezzabile. E poi, per la verità il problema di Janis Joplin riguarda un po’ tutta la sfera musicale del ventunesimo secolo: è vero, ci è rimasta la sua musica, ma è anche vero che questa non viene più ascoltata come lo era prima.
La rivoluzione digitale ha permesso un consumo molto più ampio di canzoni e generi, ma contemporaneamente ne ha ridotto la forza. La musica è ovunque, costa poco o addirittura si ascolta gratis, per cui è innegabile che oggi il suo potere comunicativo sia minore rispetto al passato. Questo fenomeno ha chiaramente colpito anche Janis: la sua musica è diventata più intrattenimento che arte. Anche Janis Joplin, in quanto artista, non è diventata che un’immagine: siamo molto focalizzati sull’apparire – piuttosto che sull’essere – per cui non è importante amare la musica, o chi la crea, ma farlo sapere agli altri con questa o quella maglietta, o sfoggiando le nostre enormi gigantografie nel salotto.
Attenzione però: non sto mettendo in discussione il ruolo di Janis Joplin, ma come questo sia stato recepito diversamente oggi rispetto al passato.
Quale ritratto personale emerge di questa donna fragile e talentuosa e in che misura oggi il suo “mito” ci parla in modo diverso rispetto al passato?
Ci parla in modo completamente diverso, perché finalmente riusciamo ad avere un punto di vista più oggettivo su un personaggio controverso come lei: innanzitutto, non siamo più offuscati dal buon costume del passato; in più, con gli anni abbiamo avuto modo di constatare che si sono succedute poche altre artiste che abbiano avuto la sua stessa portata rivoluzionaria. Era indubbiamente una donna vulnerabile, piena di sofferenza. E si è fatta a pezzi in tanti modi diversi. Aveva delle idee, in un periodo in cui era assolutamente controproducente e pericoloso averle. E si sentiva così inadeguata, che porsi volutamente al di fuori di una società che non l’accettava sembrava essere l’unico modo possibile di vivere.
Nella Prefazione di Francesco di Perna si legge che «le corde vocali e la bocca di Janis erano gli unici mezzi di cui la sua voce aveva bisogno per guardarsi nello specchio e vedersi musica». Una blueswoman destinata a superare costantemente se stessa, la propria linea di confine… È questo il messaggio che ancora oggi la sua arte ci lascia?
Il messaggio che ancora oggi ci lascia la sua arte… bella domanda. Credo però di non essere in grado di riuscire a dare una risposta univoca. L’arte non è altro che il riflesso di quello che siamo, e le canzoni non fanno che parlare di noi stessi. Quello che è certo, è che questa vocazione fu per Janis Joplin una sorta di chiamata messianica: potremmo non essere in grado di capire il significato, o addirittura, potrebbero non piacerci i suoi brani, ma la loro incredibile intensità è indiscutibile. Io personalmente non ci vedo un messaggio di ribellione, come spesso associato alla sua musica, ma di libertà. Era così sfrenata, non aveva paura di urlare, di gemere. Solo una come lei avrebbe potuto cantare: “Prendi un altro piccolo pezzo del mio cuore, ora”. E ce l’ha decisamente lasciato in eredità con la sua musica, quel piccolo (grande) pezzo di cuore.
Nel libro ti domandi chi sarebbe oggi Janis Joplin se fosse ancora in vita e che cosa rimane del suo ricordo a oltre cinquant’anni dalla morte. A quali conclusioni sei giunta?
Oggi non avrebbe sicuramente la stessa portata rivoluzionaria, perché, come dicevo prima, la società è molto mutata dagli anni ’70. E Janis Joplin, spogliata del suo contesto, resta solo una cantante sui generis con un incredibile talento. Sai, lei divenne un simbolo perché quello che faceva, per il modo in cui si comportava; pur senza volerlo – perché si limitava a fare quello che le pareva, nella maniera più involontaria possibile – creava un certo scandalo. Scandalo che, ad oggi, viene ricercato ad ogni costo. Tutti sappiamo che nell’industria discografica, il modo più veloce ed efficace per essere notato è quello di scandalizzare. La musica è quasi confinata ad un mezzo per uno scopo.
Purtroppo ci è arrivato poco, almeno parlo per la mia generazione. Tolti i veri appassionati, è più facile trovare persone che abbiano sentito nominare Jimi Hendrix, piuttosto che Janis Joplin. C’è rimasto il jingle pubblicitario delle vigorsol, c’è rimasto un nome nell’infelicissimo club dei 27.
Per questo volevo restituirle l’importanza e la dignità che meritava, senza mitizzarla né assolutamente condannarla. E far tesoro dei suoi insegnamenti.
Sin dalle prime pagine sottolinei come Janis non volesse essere un’icona femminista né rivoluzionaria, ma una delle tante possibili incarnazioni del mondo femminile. Quali aspetti del suo “essere Janis” senti più affini al tuo modo di essere o per i quali hai pensato fosse importante scriverne?
Dovevo parlarne perché trovavo veramente molto triste che l’eco di certi giudizi continuasse a perseguitarla anche dopo 50 anni dalla sua morte. Nella memoria collettiva, il nome Janis Joplin è sempre stato associato ad un certo stereotipo di artista; ogni volta che un artista ha a che fare con la droga o con il sesso, non si può fare a meno di citare l’esempio di Janis Joplin o di Amy Winehouse. Non sto dicendo che fosse una martire o un esempio da seguire. Ma che si ricordi di Janis Joplin solo per il suo triste epilogo e non anche per quello che ha rappresentato non riuscivo ad accettarlo.
Di affinità ce ne sono molte: anche io come lei ero un vero maschiaccio, facevo solo giochi da maschi ed ero sempre in mezzo ai maschi (anche se mia madre ricordo non fosse molto contenta della cosa).
E come lei, mi sento fragile e forte allo stesso modo. Sai, fino a qualche tempo fa, mi vergognavo di questa cosa, mi sentivo un po’ Giano Bifronte. Mi chiedevo come potessi essere così risoluta e sicura in certi contesti, per poi diventare fragile e debole in altri. Credevo fosse da stupidi, oltre che da incoerenti. E invece il suo importante lascito, almeno per me, è stato l’avermi fatto capire che siamo delle incontenibili proiezioni di personalità; e che non c’è nulla di sbagliato nell’essere degli infiniti mittenti di contraddizioni. Fanno parte di quelle imperfezioni che ognuno di noi, nessuno escluso, ha il diritto di avere… e che andrebbero accettate come parte del “tutto”.
Ultima domanda: la musica e le performance negli anni vissuti da Janis erano espressione di una libertà da conquistare e quindi anche di un “diritto di essere se stessi”, come recita il tuo sottotitolo. Oggi lo scenario è fatalmente mutato, ma che cosa resta secondo te di quel modo di vivere l’arte?
Guarda, la cosa veramente straordinaria è che Janis fosse “scandalosa” ed esagerata, ma senza volerlo. Non era un personaggio costruito a tavolino, né una maschera quello che indossava: era fatta così. Non sentiva il bisogno di dar vita a nessun atto rivoluzionario, quello che voleva era fare quello che in quel momento sentiva di voler fare, mentre ora quel tipo di esagerazione è quasi ricercata, come dicevamo poco sopra.
Non me la sento di sparare a zero sull’intera industria discografica di adesso. Indubbiamente il modo di fare musica è cambiato, e il modo di concepire l’artista anche.
Ma fare un discorso generalizzato è sbagliato, secondo me. Ci sono artisti di spessore, che con la loro arte tentano di veicolare un messaggio, di smuovere le coscienze, o più semplicemente, emozionare. Altri che si accontentano della hit scala classifica da canticchiare spensieratamente in macchina. Nessuna delle due categorie è inferiore all’altra, perché entrambe rispondono a diversi bisogni da parte di chi ascolta. Ma entrambe hanno perso quella spontaneità che forse la musica aveva un tempo.
Per cui, rispondendo alla tua domanda, resta veramente poco. Ma sono sempre pronta a ricredermi… in fin dei conti, solo gli stupidi non cambiano mai idea.